L’imperativo di celerità, garantito dall’art. 6 cpv. 1 CEDU, dall’art. 14 cpv. 3 lett. c del Patto ONU II e dall’art. 29 cpv. 1 Cost., è sancito espressamente all’art. 5 CPP. Conferisce alle parti il diritto a che la causa sia esaminata rapidamente e con diligenza e a che si giunga a un giudizio.
La violazione dell’imperativo di celerità viene chiamata diniego di giustizia o ritardo ingiustificato. Si configura quando l’autorità non pronuncia una decisione entro il termine prescritto dalla legge o entro un termine ragionevole, ovvero adeguato alla natura e alle circostanze della causa. Il termine ragionevole per la decisione è valutato caso per caso in base alla complessità del fascicolo, all’atteggiamento dell’accusato, al carico di lavoro delle autorità e alle modalità di trattamento del caso.
Secondo uno studio condotto nel 2015 dal Centro svizzero di competenza per i diritti umani (CSDU; cfr. Matthey/Steffanini, Partie 6: Racisme – Analyse juridique, pag. 30) sulla giurisprudenza disponibile nell’ambito della discriminazione razziale, la durata media dei procedimenti è di poco più di un anno.
Il diniego di giustizia o ritardo ingiustificato è un vizio che può essere fatto valere in ogni momento dinanzi alla giurisdizione di reclamo ai sensi del combinato disposto degli art. 393 cpv. 2 lett. e 396 CPP.