Disdetta discriminatoria

Esempio: a seguito dell’acquisto del condominio da parte di un nuovo proprietario, uno studente polacco che partecipa a un programma di scambio internazionale riceve la disdetta. Successivamente emerge che, in precedenza, il proprietario aveva avuto problemi con inquilini di origine polacca.

Se non ci sono interessi oggettivamente seri o degni di protezione, la disdetta viola il principio della buona fede (combinato disposto degli art. 271 cpv. 1 CO e art. 2 cpv. 1 CC) ed è quindi abusiva e impugnabile. Una disdetta è abusiva se fondata su ragioni di «razza», etnia, religione, modo di vita od origine nazionale o regionale (motivazioni razziste) oppure se il contratto di locazione è disdetto perché il locatario si oppone a un comportamento razzista da parte dell’amministrazione immobiliare o dei vicini (cosiddetta «disdetta ritorsiva» ai sensi dell’art. 271a cpv. 1 lett. a CO). In quest’ultimo caso, il locatore rischia anche di essere punito con una multa (art. 325bis CP).

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«Razza»

Il costrutto sociale di «razza» non si fonda soltanto su caratteristiche esteriori, ma anche su presunte peculiarità culturali, religiose o inerenti all’origine. Ecco perché, ad esempio, differenze di status socio-economico sono «spiegate» come biologicamente date con l’appartenenza etnica, culturale o religiosa.

Al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, nell’Europa continentale il concetto di «razza» è stigmatizzato come costrutto fondante del razzismo e perlopiù usato tra virgolette. Il termine è tuttavia diffuso nelle convenzioni internazionali ed è per questo impiegato anche nell’[POPUP144]art. 8 Cost. e nell’[POPUP145]art. 261bis CP per definire una caratteristica sulla base della quale è vietato discriminare.

La situazione giuridica è invece più complessa se l’amministrazione di un immobile (o il locatore) disdice un contratto nell’intento di mettere fine a un conflitto di vicinato a sfondo razzista. In questo caso, vanno tutelati e ponderati contemporaneamente gli interessi delle vittime, del vicinato e dell’amministrazione (o del locatore). Va comunque sempre osservato il principio della buona fede.

Se è un’amministrazione pubblica a disdire il contratto di locazione per motivi di «razza», etnia, religione, origine o modo di vita, si configura inoltre una violazione del divieto costituzionale di discriminazione e il principio della buona fede cui soggiace l’attività dello Stato (art. 8 cpv. 2 Cost. e art. 5 cpv. 3 Cost.).

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Art. 8 Cost. – Uguaglianza giuridica

1 Tutti sono uguali davanti alla legge.
2 Nessuno può essere discriminato, in particolare a causa dell’origine, della razza, del sesso, dell’età, della lingua, della posizione sociale, del modo di vita, delle convinzioni religiose, filosofiche o politiche, e di menomazioni fisiche, mentali o psichiche.

3 Uomo e donna hanno uguali diritti. La legge ne assicura l’uguaglianza, di diritto e di fatto, in particolare per quanto concerne la famiglia, l’istruzione e il lavoro. Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore.
4 La legge prevede provvedimenti per eliminare svantaggi esistenti nei confronti dei disabili.

Commento

Il principio generale dell’uguaglianza giuridica (cpv. 1) e il divieto generale di discriminazione (cpv. 2) sono rilevanti ai fini della lotta contro la discriminazione razziale. Si tratta di diritti costituzionali che possono essere invocati da tutte le persone fisiche (privati), indipendentemente dalla loro cittadinanza. Il principio generale dell’uguaglianza giuridica (cpv. 1) vale anche per le persone giuridiche (imprese, società di capitali, associazioni, fondazioni ecc.).

L’art. 8 Cost. interessa tutti i livelli statali (Confederazione, Cantoni, Comuni e altri enti amministrativi) e comprende sia la legislazione che l’applicazione del diritto. Il disciplinamento è tuttavia vincolante unicamente per lo Stato; tra privati è applicabile soltanto in misura molto limitata.

L’uguaglianza giuridica secondo il cpv. 1 non ha valore assoluto. In presenza di motivi obiettivi, una disparità di trattamento può essere legittima e ammessa, se non addirittura necessaria. L’aiuto sociale prevede, ad esempio, prestazioni diverse a seconda dello statuto di soggiorno.

Il divieto di discriminazione secondo il cpv. 2 rappresenta un «principio di uguaglianza particolare» e costituisce in pratica l’essenza dell’art. 8 Cost. Per una disparità di trattamento fondata su una delle caratteristiche menzionate è richiesta una giustificazione qualificata. Questo significa che la disparità di trattamento deve essere nell’interesse pubblico e proporzionata allo scopo (cfr. art. 36 Cost.). Il divieto non presuppone un’intenzione discriminatoria e interessa sia le discriminazioni dirette che quelle indirette.

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Discriminazione indiretta

Si è in presenza di una discriminazione indiretta quando basi legali, politiche o pratiche apparentemente neutre sfociano in una disparità di trattamento illegittima.

Secondo il Tribunale federale, è data «una discriminazione indiretta [...] quando una regolamentazione che non contiene disposizioni manifestamente svantaggiose per gruppi protetti contro la discriminazione svantaggia però pesantemente nei fatti gli appartenenti a uno di questi gruppi senza alcuna giustificazione obiettiva». (DTF 129 I 217 consid. 2.1 pag. 224).

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Discriminazione diretta

Secondo il Tribunale federale si è in presenza di discriminazione diretta se una persona subisce una disparità di trattamento dovuta soltanto alla sua appartenenza a un gruppo che in passato è stato tendenzialmente emarginato e trattato come inferiore e lo è tuttora. L’Alta corte ritiene che la discriminazione rappresenti un tipo qualificato di disparità di trattamento di persone in situazioni paragonabili, in quanto svantaggia una persona in maniera umiliante ed emarginante unicamente a causa di un tratto distintivo che costituisce una parte determinante della sua identità e che non può essere abbandonato o può esserlo soltanto difficilmente. La discriminazione tocca pertanto anche aspetti della dignità umana. (DTF 126 II 377 consid. 6a pag. 392 seg.).

La discriminazione diretta va distinta dalla disparità di trattamento dovuta a criteri o motivi legittimi.

L’elenco delle caratteristiche di cui al cpv. 2 non è esaustivo. Per origine s’intende l’origine geografica, etnica, nazionale o culturale che ha plasmato l’identità del soggetto. Le differenziazioni a seconda della cittadinanza sono rette in primo luogo dal cpv. 1. Nel termine «razza», oggi alquanto obsoleto nell’Europa continentale, sono sussunte caratteristiche quali il colore della pelle o l’origine. Le caratteristiche lingua e convinzioni sono disciplinate anche in altri articoli (art. 18 Cost., libertà di lingua; art. 15 Cost., libertà di credo e di coscienza e art. 16 Cost., libertà d’opinione e d’informazione).

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«Razza»

Il costrutto sociale di «razza» non si fonda soltanto su caratteristiche esteriori, ma anche su presunte peculiarità culturali, religiose o inerenti all’origine. Ecco perché, ad esempio, differenze di status socio-economico sono «spiegate» come biologicamente date con l’appartenenza etnica, culturale o religiosa.

Al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, nell’Europa continentale il concetto di «razza» è stigmatizzato come costrutto fondante del razzismo e perlopiù usato tra virgolette. Il termine è tuttavia diffuso nelle convenzioni internazionali ed è per questo impiegato anche nell’[POPUP144]art. 8 Cost. e nell’[POPUP145]art. 261bis CP per definire una caratteristica sulla base della quale è vietato discriminare.

È importante contestare sin dall’inizio una violazione delle pertinenti norme internazionali. Se il ricorso è respinto dal tribunale di ultima istanza svizzero (di regola il Tribunale federale), vi è così la possibilità di adire la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) o il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD).

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Ricorso al diritto internazionale

Il ricorrente che non condivide la sentenza dell’ultima istanza (nella maggior parte dei casi il Tribunale federale) può, a determinate condizioni, adire un tribunale internazionale. In caso di discriminazione razziale, sarà principalmente la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) o il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD).

Il ricorso dinanzi alla Corte EDU presuppone la censura di una violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) dinanzi alla prima istanza nazionale e l’esaurimento delle vie di ricorso interne. Una violazione del divieto di discriminazione (art. 14 CEDU) può inoltre essere fatta valere soltanto in combinazione con una violazione di un altro diritto previsto dalla convenzione, quale il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) o il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9 CEDU). Per contro, una decisione può essere impugnata dinanzi al CERD una volta esaurite le vie di ricorso interne, anche senza una precedente censura e unicamente in ragione della violazione di una norma dell’ICERD.

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