Razzismo e discriminazione razziale sono due temi in cui già intendersi sui termini è molto difficile e ogni scelta può avere conseguenze politiche o giuridiche. Qui di seguito ne diamo un breve quadro, ricordando che non si tratta di definizioni ufficiali.
Per ulteriori definizioni e spiegazioni più dettagliate, cliccare qui (in francese).
Il termine «razzismo» designa un’ideologia che, fondata su una suddivisione degli esseri umani in categorie supposte naturali (le cosiddette «razze») in base all’appartenenza etnica, nazionale o religiosa, giustifica la supremazia di un’etnia sulle altre. Le persone non sono giudicate e trattate come individui, ma come appartenenti a gruppi pseudo-naturali con caratteristiche collettive ritenute immutabili.
Il costrutto sociale di «razza» non si fonda soltanto su caratteristiche esteriori, ma anche su presunte peculiarità culturali, religiose o inerenti all’origine. Ecco perché, ad esempio, differenze di status socio-economico sono «spiegate» come biologicamente date con l’appartenenza etnica, culturale o religiosa.
Al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, nell’Europa continentale il concetto di «razza» è stigmatizzato come costrutto fondante del razzismo e perlopiù usato tra virgolette. Il termine è tuttavia diffuso nelle convenzioni internazionali ed è per questo impiegato anche nell’art. 8 Cost. e nell’art. 261bis CP per definire una caratteristica sulla base della quale è vietato discriminare.
Approfondimento
Art. 261bis CP – Discriminazione razziale
1 Chiunque incita pubblicamente all’odio o alla discriminazione contro una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia, religione o per il loro orientamento sessuale;2 chiunque propaga pubblicamente un’ideologia intesa a discreditare o calunniare sistematicamente tale persona o gruppo di persone;
3 chiunque, nel medesimo intento, organizza o incoraggia azioni di propaganda o vi partecipa;
4 chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia, religione o per il loro orienatamento sessuale o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità;
5 chiunque rifiuta ad una persona o a un gruppo di persone, per la loro razza, etnia, religione o per il loro orientamento sessuale, un servizio da lui offerto e destinato al pubblico,
6 è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria.
Commento
I cpv. 1–3 menzionano svariate forme di istigazione pubblica al razzismo (l’incitazione all’odio e la diffusione di ideologie razziste). I cpv. 4 e 5, invece, disciplinano la discriminazione diretta di una persona o di un gruppo di persone.
L’art. 261bis CP protegge in primo luogo la dignità umana (cfr. art. 7 Cost.) e di conseguenza anche la pace pubblica, in quanto volta ad assicurare una convivenza pacifica e sicura della popolazione. La dignità umana è violata quando una persona o un gruppo di persone sono lese nell’essenza della loro personalità, ovvero quando sono definite inferiori o quando è loro negata la qualità di essere umano o il diritto alla vita. L’atto deve quindi essere di una certa gravità.
L’art. 261bis CP punisce soltanto le discriminazioni fondate sulla «razza», sull’etnia, sulla religione o sull'orientamento sessuale; l’appartenenza nazionale e la cittadinanza non sono protette.
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«Razza»
Il costrutto sociale di «razza» non si fonda soltanto su caratteristiche esteriori, ma anche su presunte peculiarità culturali, religiose o inerenti all’origine. Ecco perché, ad esempio, differenze di status socio-economico sono «spiegate» come biologicamente date con l’appartenenza etnica, culturale o religiosa.
Al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, nell’Europa continentale il concetto di «razza» è stigmatizzato come costrutto fondante del razzismo e perlopiù usato tra virgolette. Il termine è tuttavia diffuso nelle convenzioni internazionali ed è per questo impiegato anche nell’art. 8 Cost. e nell’art. 261bis CP per definire una caratteristica sulla base della quale è vietato discriminare.
L’art. 261bis CP punisce soltanto gli atti pubblici. Secondo il Tribunale federale, gli atti o i commenti sono da considerarsi pubblici ai sensi dell’art. 261bis CP quando avvengono «al di fuori dell’ambito privato». Per commenti e atti privati è da intendersi ciò che è espresso nel seno della cerchia familiare, di un gruppo di amici o altrimenti in un ambiente caratterizzato da relazioni personali o da particolare confidenza. Per giudicare se un atto sia da considerarsi commesso in una cerchia privata, occorre tenere conto delle circostanze concrete. Il numero delle persone presenti può ovviamente giocare un ruolo, ma da solo non basta per configurare un atto pubblico (DTF 130 IV 111, 119 seg., consid. 5.2.2). È di per sé sufficiente la sola possibilità concreta che un osservatore abbia assistito all’episodio di stampo razzista (DTF 133 IV 308, 319, consid. 9.1). A determinate condizioni, in mancanza del carattere pubblico, possono essere fatte valere altre fattispecie penali, quali l’ingiuria (art. 177 CP) o le lesioni personali (art. 122 segg. CP).
Approfondimento
Art. 8 Cost. – Uguaglianza giuridica
1 Tutti sono uguali davanti alla legge.2 Nessuno può essere discriminato, in particolare a causa dell’origine, della razza, del sesso, dell’età, della lingua, della posizione sociale, del modo di vita, delle convinzioni religiose, filosofiche o politiche, e di menomazioni fisiche, mentali o psichiche.
3 Uomo e donna hanno uguali diritti. La legge ne assicura l’uguaglianza, di diritto e di fatto, in particolare per quanto concerne la famiglia, l’istruzione e il lavoro. Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore.
4 La legge prevede provvedimenti per eliminare svantaggi esistenti nei confronti dei disabili.
Commento
Il principio generale dell’uguaglianza giuridica (cpv. 1) e il divieto generale di discriminazione (cpv. 2) sono rilevanti ai fini della lotta contro la discriminazione razziale. Si tratta di diritti costituzionali che possono essere invocati da tutte le persone fisiche (privati), indipendentemente dalla loro cittadinanza. Il principio generale dell’uguaglianza giuridica (cpv. 1) vale anche per le persone giuridiche (imprese, società di capitali, associazioni, fondazioni ecc.).
L’art. 8 Cost. interessa tutti i livelli statali (Confederazione, Cantoni, Comuni e altri enti amministrativi) e comprende sia la legislazione che l’applicazione del diritto. Il disciplinamento è tuttavia vincolante unicamente per lo Stato; tra privati è applicabile soltanto in misura molto limitata.
L’uguaglianza giuridica secondo il cpv. 1 non ha valore assoluto. In presenza di motivi obiettivi, una disparità di trattamento può essere legittima e ammessa, se non addirittura necessaria. L’aiuto sociale prevede, ad esempio, prestazioni diverse a seconda dello statuto di soggiorno.
Il divieto di discriminazione secondo il cpv. 2 rappresenta un «principio di uguaglianza particolare» e costituisce in pratica l’essenza dell’art. 8 Cost. Per una disparità di trattamento fondata su una delle caratteristiche menzionate è richiesta una giustificazione qualificata. Questo significa che la disparità di trattamento deve essere nell’interesse pubblico e proporzionata allo scopo (cfr. art. 36 Cost.). Il divieto non presuppone un’intenzione discriminatoria e interessa sia le discriminazioni dirette che quelle indirette.
Approfondimento
Discriminazione indiretta
Si è in presenza di una discriminazione indiretta quando basi legali, politiche o pratiche apparentemente neutre sfociano in una disparità di trattamento illegittima.
Secondo il Tribunale federale, è data «una discriminazione indiretta [...] quando una regolamentazione che non contiene disposizioni manifestamente svantaggiose per gruppi protetti contro la discriminazione svantaggia però pesantemente nei fatti gli appartenenti a uno di questi gruppi senza alcuna giustificazione obiettiva». (DTF 129 I 217 consid. 2.1 pag. 224).
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Discriminazione diretta
Secondo il Tribunale federale si è in presenza di discriminazione diretta se una persona subisce una disparità di trattamento dovuta soltanto alla sua appartenenza a un gruppo che in passato è stato tendenzialmente emarginato e trattato come inferiore e lo è tuttora. L’Alta corte ritiene che la discriminazione rappresenti un tipo qualificato di disparità di trattamento di persone in situazioni paragonabili, in quanto svantaggia una persona in maniera umiliante ed emarginante unicamente a causa di un tratto distintivo che costituisce una parte determinante della sua identità e che non può essere abbandonato o può esserlo soltanto difficilmente. La discriminazione tocca pertanto anche aspetti della dignità umana. (DTF 126 II 377 consid. 6a pag. 392 seg.).
La discriminazione diretta va distinta dalla disparità di trattamento dovuta a criteri o motivi legittimi.
L’elenco delle caratteristiche di cui al cpv. 2 non è esaustivo. Per origine s’intende l’origine geografica, etnica, nazionale o culturale che ha plasmato l’identità del soggetto. Le differenziazioni a seconda della cittadinanza sono rette in primo luogo dal cpv. 1. Nel termine «razza», oggi alquanto obsoleto nell’Europa continentale, sono sussunte caratteristiche quali il colore della pelle o l’origine. Le caratteristiche lingua e convinzioni sono disciplinate anche in altri articoli (art. 18 Cost., libertà di lingua; art. 15 Cost., libertà di credo e di coscienza e art. 16 Cost., libertà d’opinione e d’informazione).
L’espressione «discriminazione razziale» definisce ogni azione o pratica che senza giustificazione alcuna svantaggia determinate persone, le umilia, le minaccia o ne mette in pericolo la vita e/o l’integrità fisica a causa delle loro caratteristiche fisionomiche, etniche, culturali e/o religiose.
A differenza del razzismo, la discriminazione razziale non ha necessariamente un fondamento ideologico. Può essere intenzionale, ma anche, e non di rado, involontaria (si pensi alla discriminazione indiretta o alla discriminazione strutturale).
Nel nostro contesto, il termine «atteggiamento» definisce un’opinione, un parere o una relazione interiore con un tema o con una situazione. In questa definizione rientrano anche, in particolare, le opinioni positive, negative o stereotipe.
Gli atteggiamenti razzisti non sfociano necessariamente in atti razzisti e non hanno necessariamente un fondamento ideologico. Creano tuttavia un clima in cui la discriminazione razziale è più facilmente tollerata o approvata.
La xenofobia è un atteggiamento fondato su pregiudizi e stereotipi che associa sentimenti negativi a tutto ciò che viene ritenuto straniero. Dal punto di vista sociopsicologico, un’immagine negativa degli «stranieri» produce un senso di superiorità. La costruzione di immagini di presunti «stranieri» o «altri» non ha ragioni antropologiche, ma socioculturali. In altre parole, non è data per natura e può quindi essere modificata.
L’uso del termine «xenofobia» cela dei rischi, in quanto spiega i processi della stigmatizzazione in termini psicologici e biologici («-fobia»), suggerendo così che violenza ed esclusione siano date per natura. Il termine è tuttavia utile per definire l’atteggiamento confuso e non necessariamente ideologizzato di chi rifiuta per principio tutto ciò che è «straniero», teme l’«inforestieramento» e auspica una politica dell’immigrazione discriminatoria e restrittiva. Il concetto è per altro usato anche perché molto diffuso nelle convenzioni e nei documenti internazionali (spesso in combinazione con «razzismo»).
È definito «crimine d’odio» un reato motivato da odio o disprezzo nei confronti di persone o gruppi di persone e finalizzato alla loro esclusione. L’intenzione discriminatoria può avere motivazioni razziste, misogine, omofobe ecc.
In Svizzera, il movente dell’odio può costituire un’aggravante e portare a una condanna più severa (DTF 133 IV 308). Il termine è discusso nel quadro di conferenze internazionali (p. es. nell’OSCE) ed è iscritto nel codice penale statunitense.
Per «discorsi d’odio» s’intendono invettive rivolte direttamente ai destinatari o espresse ad altri che denigrano persone o gruppi di persone ledendone la dignità umana o diffamandoli sulla base di una loro caratteristica malvista (p. es. l’origine, la disabilità, l’età, il sesso, l’orientamento o l’identità sessuale ecc.) oppure che incitano all’odio nei loro confronti.
Attualmente non esiste una definizione giuridica unitaria di questo concetto complesso né a livello nazionale né a livello internazionale. In Svizzera, il discorso d’odio razzista secondo l’art. 4 ICERD è perseguibile penalmente (art. 261bis CP).
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Art. 261bis CP – Discriminazione razziale
1 Chiunque incita pubblicamente all’odio o alla discriminazione contro una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia, religione o per il loro orientamento sessuale;2 chiunque propaga pubblicamente un’ideologia intesa a discreditare o calunniare sistematicamente tale persona o gruppo di persone;
3 chiunque, nel medesimo intento, organizza o incoraggia azioni di propaganda o vi partecipa;
4 chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia, religione o per il loro orienatamento sessuale o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità;
5 chiunque rifiuta ad una persona o a un gruppo di persone, per la loro razza, etnia, religione o per il loro orientamento sessuale, un servizio da lui offerto e destinato al pubblico,
6 è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria.
Commento
I cpv. 1–3 menzionano svariate forme di istigazione pubblica al razzismo (l’incitazione all’odio e la diffusione di ideologie razziste). I cpv. 4 e 5, invece, disciplinano la discriminazione diretta di una persona o di un gruppo di persone.
L’art. 261bis CP protegge in primo luogo la dignità umana (cfr. art. 7 Cost.) e di conseguenza anche la pace pubblica, in quanto volta ad assicurare una convivenza pacifica e sicura della popolazione. La dignità umana è violata quando una persona o un gruppo di persone sono lese nell’essenza della loro personalità, ovvero quando sono definite inferiori o quando è loro negata la qualità di essere umano o il diritto alla vita. L’atto deve quindi essere di una certa gravità.
L’art. 261bis CP punisce soltanto le discriminazioni fondate sulla «razza», sull’etnia, sulla religione o sull'orientamento sessuale; l’appartenenza nazionale e la cittadinanza non sono protette.
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«Razza»
Il costrutto sociale di «razza» non si fonda soltanto su caratteristiche esteriori, ma anche su presunte peculiarità culturali, religiose o inerenti all’origine. Ecco perché, ad esempio, differenze di status socio-economico sono «spiegate» come biologicamente date con l’appartenenza etnica, culturale o religiosa.
Al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, nell’Europa continentale il concetto di «razza» è stigmatizzato come costrutto fondante del razzismo e perlopiù usato tra virgolette. Il termine è tuttavia diffuso nelle convenzioni internazionali ed è per questo impiegato anche nell’art. 8 Cost. e nell’art. 261bis CP per definire una caratteristica sulla base della quale è vietato discriminare.
L’art. 261bis CP punisce soltanto gli atti pubblici. Secondo il Tribunale federale, gli atti o i commenti sono da considerarsi pubblici ai sensi dell’art. 261bis CP quando avvengono «al di fuori dell’ambito privato». Per commenti e atti privati è da intendersi ciò che è espresso nel seno della cerchia familiare, di un gruppo di amici o altrimenti in un ambiente caratterizzato da relazioni personali o da particolare confidenza. Per giudicare se un atto sia da considerarsi commesso in una cerchia privata, occorre tenere conto delle circostanze concrete. Il numero delle persone presenti può ovviamente giocare un ruolo, ma da solo non basta per configurare un atto pubblico (DTF 130 IV 111, 119 seg., consid. 5.2.2). È di per sé sufficiente la sola possibilità concreta che un osservatore abbia assistito all’episodio di stampo razzista (DTF 133 IV 308, 319, consid. 9.1). A determinate condizioni, in mancanza del carattere pubblico, possono essere fatte valere altre fattispecie penali, quali l’ingiuria (art. 177 CP) o le lesioni personali (art. 122 segg. CP).
I discorsi d’odio sono diffusi soprattutto in Internet, il che spesso ne rende difficile il perseguimento.
Secondo il Tribunale federale si è in presenza di discriminazione diretta se una persona subisce una disparità di trattamento dovuta soltanto alla sua appartenenza a un gruppo che in passato è stato tendenzialmente emarginato e trattato come inferiore e lo è tuttora. L’Alta corte ritiene che la discriminazione rappresenti un tipo qualificato di disparità di trattamento di persone in situazioni paragonabili, in quanto svantaggia una persona in maniera umiliante ed emarginante unicamente a causa di un tratto distintivo che costituisce una parte determinante della sua identità e che non può essere abbandonato o può esserlo soltanto difficilmente. La discriminazione tocca pertanto anche aspetti della dignità umana. (DTF 126 II 377 consid. 6a pag. 392 seg.).
La discriminazione diretta va distinta dalla disparità di trattamento dovuta a criteri o motivi legittimi.
Si è in presenza di una discriminazione indiretta quando basi legali, politiche o pratiche apparentemente neutre sfociano in una disparità di trattamento illegittima.
Secondo il Tribunale federale, è data «una discriminazione indiretta [...] quando una regolamentazione che non contiene disposizioni manifestamente svantaggiose per gruppi protetti contro la discriminazione svantaggia però pesantemente nei fatti gli appartenenti a uno di questi gruppi senza alcuna giustificazione obiettiva». (DTF 129 I 217 consid. 2.1 pag. 224).
Si è in presenza di una discriminazione istituzionale quando processi e regolamenti teoricamente neutri di istituzioni o organizzazioni svantaggiano nettamente o escludono determinati gruppi di persone (p. es. quando a scuola i bambini allofoni ricevono voti inferiori nelle materie scientifiche a causa di difficoltà linguistiche).
Nel linguaggio sociologico, il termine «discriminazione strutturale» definisce l’esclusione e le condizioni di svantaggio di determinati gruppi riconducibili all’organizzazione della società, consolidatesi nel corso della storia e accettate come «normali» e, quindi, non necessariamente percepite o messe in discussione. Per molti anni è stato, ad esempio, ritenuto «naturale» che le professioni «tipicamente femminili» fossero remunerate meno bene.
Si è in presenza di una discriminazione multipla quando una persona è discriminata allo stesso tempo a causa di più caratteristiche malviste (p. es. a causa di caratteristiche fisionomiche o dell’appartenenza religiosa e del sesso, della classe sociale, di una disabilità o di un’altra caratteristica).
Nel caso della discriminazione intersezionale, invece, diverse forme di esclusione interagiscono in modo da farne risaltare una in particolare. Per esempio, un comportamento razzista nei confronti di una donna può manifestarsi sotto forma di sessismo o, al contrario, un atto in realtà di stampo sessista può essere motivato con argomenti razzisti.
Link al factsheet CSDU in tedesco:
https://www.skmr.ch/de/themenbereiche/geschlechterpolitik/publikationen/factsheet-zur-mehrfachdiskriminierung.html
Link al factsheet CSDU in francese: https://www.skmr.ch/frz/domaines/genre/publications/discrimination-multiple.html
Si parla di «profiling razziale» quando una persona è controllata da agenti di polizia o della sicurezza o da guardie di confine non in base a sospetti concreti, ma a causa delle sue caratteristiche fisionomiche, della sua origine etnica, delle sue caratteristiche culturali (lingua, cognome) e/o della sua fede religiosa. Il profiling razziale è criticato come inefficace ed è proibito, ad esempio, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Il termine «ostilità antimusulmana» designa un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle persone che si definiscono musulmane o sono percepite come tali. Nell’ostilità antimusulmana possono confluire elementi di rifiuto nei confronti di persone originarie di determinati Paesi (islamici), di società considerate patriarcali o misogine o della pratica fondamentalistica della fede. Rientrano nella visione di una persona antimusulmana anche la convinzione che tutti i musulmani vogliano introdurre la sharia, non rispettino i diritti umani e simpatizzino con i terroristi.
Il termine «ostilità antimusulmana» è preferito al termine «islamofobia», in quanto le misure statali contro la discriminazione dei musulmani intendono proteggere singoli individui e gruppi di individui, non una religione.
L’uso del termine «islamofobia» cela dei rischi, in quanto spiega i processi della stigmatizzazione in termini psicologici e biologici («-fobia»), suggerendo così che violenza ed esclusione siano date per natura.
Il razzismo contro i neri è riferito specificamente al colore della pelle e a caratteristiche fisionomiche. Dall’aspetto esteriore (fenotipo) si traggono conclusioni sull’interiorità (genotipo), con l’attribuzione di caratteristiche personali o comportamentali negative.
Il razzismo contro i neri trae origine dall’ideologia razzista impostasi nel XVII e XVIII secolo a giustificazione dei sistemi di potere coloniali e dello schiavismo. Oggi in Svizzera ne sono vittima gruppi di popolazione molto diversi tra loro (svizzeri con antenati provenienti dall’Africa, dal Nordamerica o dal Sudamerica, immigrati da queste regioni e immigrati dai Paesi europei limitrofi).
Al contrario delle caratteristiche cui sono riferiti gli atteggiamenti e i comportamenti razzisti fondati sulla (presunta) religione o cultura di altre persone, le caratteristiche che scatenano il razzismo contro i neri sono visibili e immutabili. Sono decisivi soltanto caratteristiche esteriori o il colore della pelle. Non conta se una persona è qui da generazioni o è appena arrivata, se è ben integrata o no. Questa forma di razzismo non può dunque essere combattuta con provvedimenti d’integrazione, ma soltanto con misure per l’eliminazione di comportamenti e atteggiamenti discriminatori.
Il termine antisemitismo definisce reati come gli attentati all’integrità fisica, alla vita o alla proprietà di Ebrei o istituzioni ebraiche. Possono però essere antisemiti anche convinzioni ostili, pregiudizi o stereotipi chiaramente o vagamente riconoscibili nella cultura, nella società o in atti individuali finalizzati ad anteporre il proprio gruppo di appartenenza a quello degli Ebrei o a denigrare o svantaggiare gli Ebrei e le loro istituzioni.
Il termine «ostilità antiebraica» designa un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle persone che si definiscono ebree o sono percepite come tali. Il termine «antisemitismo» è usato oggi come iperonimo e in parte anche come sinonimo di tutti gli atteggiamenti antiebraici. Nel contesto del razzismo, l’antisemitismo rappresenta un fenomeno particolare in cui a un’appartenenza religiosa (l’oggetto dell’ostilità antiebraica) viene fatta corrispondere un’appartenenza etnica (l’oggetto dell’antisemitismo, anche se il termine «semitico» è originariamente un costrutto linguistico).
Le misure statali contro la discriminazione degli Ebrei o di persone percepite come tali intendono proteggere singoli individui e gruppi di individui, non una religione.
Questa definizione si basa essenzialmente su quella dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto ampliandola per l’applicazione al contesto svizzero.
L’antiziganismo è un concetto coniato in analogia all’antisemitismo e in uso dagli anni 1980 per designare l’atteggiamento ostile e caratterizzato da stereotipi negativi nei confronti delle persone e dei gruppi di persone percepiti come «zingari» (Jenisch, Sinti, Rom e altri), indipendentemente dal fatto che conducano una vita nomade o meno. Nel corso della storia, l’antiziganismo si è manifestato sotto forma di discriminazione economica, sociale o statale, di persecuzione politica, di espulsioni, internamento, sterilizzazione coatta e genocidio organizzato dall’apparato statale.
Il termine non è incontestato, in quanto contiene la designazione «zingaro», da molti concepita come razzista, e ne diffonde quindi il contenuto negativo anche se è usato in riferimento all’ostilità nei confronti degli Jenisch, dei Sinti o dei Rom.